BEATA MADRE ELENA AIELLO, LA SUORA CHE SUDAVA SANGUE E CHE SCRIVEVA A MUSSOLINI DA PARTE DI GESU’…
Elena Aiello nacque a Montalto Uffugo, provincia di Cosenza, il 10 aprile 1895, mercoledì della Settimana Santa, da Pasquale Aiello e Teresa Paglilla.
La piccola Elena visse in un ambiente familiare esemplarmente cristiano. Pasquale Aiello era annoverato tra i migliori sarti della zona. Veniva descritto come un uomo di una onestà eccezionale, squisito nei modi, appariva ed era un perfetto gentiluomo, rispettava ed era rispettato.
Nel 1905 morì, ancora giovane, la moglie Teresa lasciando ben otto figli: Emma, Ida, Elena, Evangelina, Elisa, Riccardo, Giovannina e Francesco; un’altra figlia, M. Teresa, era morta un mese prima, a un solo anno di età. Ciascuno di essi aiutava, in proporzione all’età e alle altre peculiari occupazioni, il genitore nel suo lavoro.
Elena aveva manifestato subito una viva intelligenza: a quattro anni ripeteva già le formule del catechismo; a sei (1901) venne mandata dalle Suore del Preziosissimo Sangue, per frequentare le scuole elementari e continuare l’istruzione religiosa.
Nell’istituto delle Suore, la piccola, dopo la preghiera, esprimeva sempre il desiderio di voler assistere alla S. Messa; ma nell’Istituto non veniva celebrata ogni mattina e allora la piccola Elena, quando poteva, scappava nella vicina chiesa per soddisfare il suo vivo desiderio.
Rientrando a casa, dopo la scuola, aiutava anche lei, sotto la guida della sorella, nel comune lavoro di cucito.
Le Suore dell’Istituto, vedendo il suo progresso e la sua preparazione nella conoscenza del catechismo, incominciarono – ad otto anni – a portarla con loro, per abituarla ad insegnare ai più piccoli la dottrina cristiana.
Il tempo libero lo dedicava agli altri lavori domestici ed alle immancabili preghiere quotidiane.
La Calabria, durante la Prima Guerra Mondiale subì come e forse più delle altre regioni, per le carenze in campo igienico e sanitario, la furia dell’epidemia di “spagnola”, che gettava nella desolazione interi quartieri e paesi. Elena in quel periodo passava la sua giornata assistendo gli infermi, occupandosi perfino della confezione di rozze casse di legno per seppellire “cristianamente – come lei stessa affermava – le infelici vittime dell’epidemia”.
Durante il periodo dell’epidemia, maestro Pasquale lasciò che Elena passasse anche la notte nell’Istituto con le Suore, per timore che portasse il contagio in famiglia. E le Suore incominciarono a considerarla come una di casa, accarezzando il pensiero di accoglierla quanto prima nella loro congregazione. E il padre, vista la decisione e l’insistenza di Elena, finita ormai la tempesta del dopoguerra, le diede il permesso di farsi suora. E così, il 18 agosto 1920, Elena fa il suo ingresso nell’Istituto delle Suore del Preziosissimo Sangue.
Ma la permanenza di Elena nell’Istituto non sarebbe durata molto. Un giorno la Madre Generale, mentre saliva le scale, da un finestrino la vide nella lavanderia distesa a terra. Subito venne sollevata e messa a letto. Si constatò che dall’omero sinistro fino al collo era tutto nero. Fu chiamato il medico che consigliò un intervento chirurgico. Ma si tardò ad operare, mentre insorgeva una febbre persistente. Le Suore decisero allora di farla operare dallo stesso medico della comunità, assumendo esse ogni responsabilità.
Il 25 marzo 1921 (martedì santo), nello stesso dormitorio, seduta e legata ad una sedia, Elena sopportò l’asportazione della carne annerita, senza anestesia, neppure locale; tenendo tra le mani un piccolo crocifisso di legno e avendo di fronte un quadro dell’Addolorata.
Insieme alla carne annerita, il medico tagliò anche dei nervi, tanto che la spalla rimase immobile e la bocca serrata. L’impressione lasciata sulla sofferente fu tremenda; per circa quaranta giorni fu tormentata dal vomito.
Avvicinandosi poi il tempo della vestizione, Elena, con un grande sforzo di volontà, con la ferita ancora aperta, volle alzarsi dal letto e seguire il corso degli esercizi spirituali, nella speranza di vestire l’abito religioso. Per correggere il difetto della spalla riuscì a mettere un busto, che serviva a raddrizzarla. Ma vista la sua grave condizione fisica, il Padre Direttore non poté che consigliarle di far ritorno in famiglia per curarsi bene e potere quindi ritornare in monastero.
In quel periodo Elena scrisse nei suoi appunti di avere ricevuto due volte, in quella circostanza, e pochi giorni prima che lasciasse il monastero, da parte del Signore, un invito alla rassegnazione, ad accettare quanto avrebbe disposto su di lei, e un invito ad abbracciare la croce che le andava preparando.
Elena intanto era deperita a tal punto da essere irriconoscibile. Non poteva né lavarsi, né pettinarsi da sé; il braccio sinistro era paralizzato e sulla spalla c’era una piaga, che ben presto avrebbe cominciato a verminare. Il padre, molto preoccupato per la condizione di Elena, la portò a Cosenza per farla visitare. Il professore che la esaminò, così concluse: «Niente posso farti, figlia mia, perché sei stata rovinata; il medico che ti ha operato… non è un chirurgo; sono stati tagliati dei nervi…; solo un miracolo potrà risolvere il tuo stato di salute; ormai è già in atto la cancrena!».
Qualche tempo dopo i medici ordinarono ad Elena anche una visita accurata e una radiografia per accertare la causa de gravi disturbi gastrici che continuava a lamentare. Fu ricondotta pertanto all’Ospedale Civile di Cosenza, dove le venne diagnosticato un cancro allo stomaco.
Elena rivolse una fervida preghiera a Santa Rita domandando la guarigione dal nuovo male che l’aveva colpita allo stomaco. Nei suoi appunti Elena racconta che mentre pregava, vide la statua di Santa Rita circondarsi di vividi fulgori abbaglianti. Nella notte, la Santa le apparve e le parlò: voleva che si istituisse a Montalto il suo culto per ravvivare la fede di quella gente, e chiedeva ad Elena di fare un triduo in suo onore. Il giorno dopo Elena ritornò a Montalto e incominciò il triduo a Santa Rita. Alla fine di esso, la visione si rinnovò: il triduo, diceva la Santa, andava ripetuto. Compiutolo, Elena sarebbe stata guarita dal grave male allo stomaco. Le sarebbe rimasta l’infermità alla spalla, dovendo soffrire per i peccati degli uomini.
E in effetti, il 21 ottobre del 1921, Elena ebbe la grazia della completa guarigione dal tumore gastrico. La sorella Evangelina dalla camera attigua vide una forte luce che attraverso la fessura della porta si irradiava dalla stanza di Elena, e credendo si trattasse di un incendio si precipitò nella stanza della sorella. Si accostò al suo letto, vide che Elena era come assopita priva di sensi e preoccupata chiamò gli altri familiari, temendo addirittura che fosse morta. Rientrando nella stanza trovarono Elena assolutamente normale che raccontò loro la visita di S. Rita, la guarigione, le parole della visione; dopo chiese qualcosa da mangiare.
Il 2 marzo 1923, primo venerdì del mese, avvenne, per la prima volta, quel fenomeno straordinario che attirerà su Elena l’attenzione di tanta gente, da regioni anche lontanissime, e che si ripeterà ogni anno, fino alla sua morte. Al mattino, dopo la comunione, una voce interna le preannunziava imminente il nuovo genere di sofferenza prescelto per lei dal Signore. Verso le ore 15 era a letto molto sofferente per la piaga cancrenosa alla spalla sinistra; le apparve il Signore vestito di bianco, con la corona di spine. All’invito se voleva partecipare alle sue sofferenze, Elena rispose affermativamente; allora il Signore togliendosi dal Suo capo la corona la pose sul capo di lei. A tale contatto uscì un’abbondante effusione di sangue. Il Signore le comunicò che voleva quella sofferenza per convertire i peccatori, per i molti peccati d’impurità, e lei doveva essere vittima per soddisfare la Divina Giustizia.
Una certa donna di nome Rosaria, inserviente di famiglia, dopo aver prestato il suo servizio stava per andarsene; avvertendo alcuni lamenti che venivano dalla stanzetta di Elena, si affacciò cautamente per rendersi conto di quanto stava accadendo. Sorpresa alla visione di tanto sangue, subito avvisò i familiari pensando che Elena fosse stata uccisa. Immediatamente accorsero nella stanzetta tutti i familiari e trovandosi di fronte a quello spettacolo fecero chiamare i medici e i sacerdoti del paese. Il Dott. Adolfo Turano praticò dei lavaggi, ma il sangue continuava ad uscire dal capo. Dopo tre ore di alterno sanguinamento il fenomeno scomparve da sé. Tutti rimasero sorpresi, confusi, impressionati perché non sapevano spiegare in nessun modo quanto era avvenuto.
Il secondo venerdì di marzo prima delle ore quindici si recarono in casa il Dott. Turano e parecchie altre persone per controllare se lo straordinario evento si fosse ripetuto. E in effetti, esattamente alla stessa ora si ripropose lo stesso fenomeno; allora il dottore cercò di asciugare il sangue con un fazzoletto, ma al contatto con la parte sofferente la pelle si irritava talmente da lasciarle tutti i pori aperti e molto dolenti.
Il terzo venerdì di marzo una signora di S. Benedetto Ullano (D. Virginia Manes), madre del medico Dott. Aristodemo Milano, fu mandata dal figlio per costatare il fatto e bagnare un fazzoletto nel sangue. La donna, rimasta sola nella celletta di Elena, le asciugò la fronte con un fazzoletto, che poi piegò e conservò. Ritornata a San Benedetto trovò inspiegabilmente il fazzoletto completamente pulito e senza alcuna traccia di sangue. Il figlio dinanzi al racconto della mamma si convertì ricevendo il battesimo.
In una visione il Signore, rispondendo alle lagnanze di Elena per tutto quello che le veniva fatto per il sudore di sangue, le spiegò che era Lui che la faceva soffrire, che doveva essere una sua vittima per il mondo, che non si doveva affliggere, che le avevano tolto il Crocifisso perché Lui era sempre presente nel suo cuore e che a conferma di questo le avrebbe dato un segno a tutti visibile facendo riflettere nel suo corpo le piaghe della sua Passione. Difatti nell’ultimo venerdì di marzo Elena soffrì nel corpo coperto di piaghe e Gesù le disse: «Anche tu devi essere simile a Me perché devi essere la vittima per tanti peccatori e soddisfare alla giustizia del Padre mio perché essi siano salvi».
Verso le cinque Gesù le diceva: «Figlia mia, ammira come soffro! Ho versato tutto il mio sangue per il mondo ed ora va tutto in rovina; nessuno si avvede delle scelleraggini di cui è ricoperto. Considera l’acerbità del mio dolore per tante ingiurie e disprezzi che ricevo da tanti malvagi e dissoluti…».
Il Venerdì seguente, a tutte le altre piaghe delle mani e dei piedi si aggiunse la ferita del Costato.
Il giorno del Corpus Domini si rinnovò il dolore alle piaghe con una nuova effusione di sangue dalle medesime che infine si rimarginavano perfettamente.
I fenomeni sopra accennati in Elena non ostacolarono affatto la sua straordinaria attività, la normalità della sua vita religiosa, l’espletamento delle sue funzioni di fondatrice e superiora generale di una nuova congregazione.
Le sofferenze del venerdì santo avvenivano abitualmente con l’assoluta esclusione di ogni curioso, le porte della casa rimanevano completamente chiuse. Al mattino del sabato santo suor Elena era già, come di consueto, al suo posto di preghiera, di lavoro, di responsabilità, come se nulla fosse accaduto.
Per altro quei fenomeni non le facilitarono certo i rapporti con le autorità ecclesiastiche, anzi risultarono talvolta una fonte di dispiaceri e di umiliazioni. Ma la gente, nelle sue tribolazioni, accorreva a lei, a lei ci si rivolgeva prima di decisioni importanti.
Chi chiedeva di «Suor Elena Aiello» per averne l’indirizzo, vedeva per lo più sul volto dell’interpellato l’espressione manifesta di chi sente per la prima volta nominare quella persona; ma bastava aggiungere qualche accenno ai fenomeni suddetti, come «la suora che suda sangue», per sentirsi rispondere: «Ah! voi cercate ‘a monaca santa», e aveva subito l’indicazione precisa. E fu questo l’appellativo abituale di Suor Elena.
Diversi furono gli annunci dati da Elena che sarebbe completamente guarita dal tormentoso male della spalla. In una lettera del 10 maggio 1924 a Mons. Mauro, così di esprimeva Suor Elena:
«Rev.do Padre, ieri verso le ore 3 pomeridiane mi apparve Gesù dicendomi: “Figlia mia diletta vuoi guarire oppure vuoi soffrire?”. Io gli dissi: “A soffrire con Voi, Gesù mio, si soffre tanto bene. Ma fate quello che volete”. E Gesù: “Ebbene ti farò guarire, ma sappi che ogni venerdì, ti farò entrare in tristezza, così mi starai più unita”. Detto questo scomparve…». [a]
Così al dott. Adolfo Turano, chiamato dai familiari per l’aggravarsi dello stato dell’inferma, Elena appena qualche giorno prima del 22 maggio, rifece il racconto di una visione avuta da S. Rita, con l’indicazione che l’avrebbe guarita il giorno 22, nel pomeriggio. Il dottore, date le condizioni dell’inferma, giudicò espressione di delirio quelle affermazioni, e in tal senso ne parlò ai familiari.
Il giorno 22, mentre Elena con grande forza d’animo era intenta a togliere da sé, aiutandosi con uno specchio e usando degli stecchini, i vermi che si formavano nella sua piaga alla spalla, avvenne il miracolo. Ecco la narrazione fatta dalla sorella di Elena, Emma: «…Quando assunsi il pietoso compito di estrarli [i vermi dalla spalla; N.d.R.], usai lo stesso metodo di Elena: lo stecchino. Slabbravo la pelle che circondava le piaghe profonde e li facevo saltare con lo stecchino, ma più ne toglievo, più ce n’erano! Poi vi deponevo una polverina gialla che mi avevano indicato, senza nessun risultato.
Elena sopportava con rassegnazione quel tormento, ma la sua fede in S. Rita era incalcolabile. Aveva la certezza di guarire; ma non tutti potevano credere. Erano tre anni! Nella notte del 21 maggio 1924, Elena sognò S. Rita dirle che all’indomani alle 15 l’avrebbe guarita.
In quel mese di Maria, come nei precedenti giorni recitavamo il Rosario… Recitato il Rosario, a cospetto della statua con lo sportello della custodia aperto, Elena cominciò a pregare… E aiutata da me, si alzò e si accostò alla statua. Avemmo l’impressione che la mano di Santa Rita, protesa verso il Crocifisso, si fosse scostata per raggiungere la mano del lato offeso di Elena e sollevargliela in alto, e che una vibrazione scuotesse la statua e la custodia. Elena, fra la commozione di noi ancora increduli, ripeté: “Sono guarita! Sono guarita!”… Quando le volli vedere la piaga, la trovai chiusa, e vi si scorgeva una cicatrice».
Nel 1926 le sofferenze dei venerdì di marzo e del venerdì santo si ripeterono regolarmente. Il Signore nelle visioni manifestava chiaramente ad Elena che voleva iniziata l’Opera.
Nel 1928, all’età di 33 anni, fondò l’ordine delle Suore Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. A quel tempo, anche se tutti la chiamano suora, canonicamente non era tale. Madre Elena non conobbe le tappe canoniche che oggi regolano il cammino della formazione alla vita religiosa. Solo il 3 ottobre 1949, all’età di 54 anni, emise i voti perpetui ricevuti da Monsignor Aniello Calcara, Arcivescovo di Cosenza.
Il primo lavoro fu quello dell’educazione dei figli del popolo. Ne furono raccolti un centinaio, che vennero istruiti, educati nell’asilo e nella scuola di ricamo e preparati per la prima Comunione.
Nel primo periodo Suor Elena, assieme ad un’aiutante, Suor Gigia, raccoglievano per le case i bambini e le giovanette nella Chiesa della Madonna di Loreto istruendoli nelle verità religiose e preparandoli alla prima Comunione.
L’Opera, benedetta da Dio e incoraggiata dalle Autorità ecclesiastiche, ebbe il plauso di tutta la città di Cosenza che non mancò d’incoraggiarla e sostenerla con la cooperazione della carità cristiana. Dopo un anno erano già ricoverate 24 bambine.
E’ così che, confidando nella Provvidenza, Elena iniziava dal nulla l’opera chiestale dal Signore e con la più grande tranquillità si occupava giorno per giorno di compiere i suoi doveri di religiosa e di Superiora, nei confronti delle piccole e della comunità. Tutta la vita di Elena fu una continua dimostrazione di questa fede ardente, di questa quiete inalterabile dell’animo che proviene dall’abbandono completo a Dio. Fede operosa, e continuamente irrobustita dall’esercizio della carità di Cristo.
S. Teresa del Bambino Gesù mostrò talvolta la sua compiacenza alla piccola comunità che a lei si intitolava. Un giorno, apparve dolcemente sorridente a tutte le piccole che nel laboratorio lavoravano recitando qualche preghiera; il chiasso che ne seguì fece accorrere Suor Elena dal piano superiore: erano tutte eccitate per «aver visto» la santa carmelitana. Risalendo donde era venuta, Elena vide anche lei S. Teresa che dalla soglia della stanza le sorrise.
Per la povertà di Suor Elena il fitto dell’abitazione era un peso non indifferente; anche qui venne un aiuto inatteso. Il fondatore e direttore della locale Cassa Rurale, mise a disposizione dell’Istituto i vecchi locali della sua Banca. Suor Elena e Suor Gigia si trasferirono subito nella nuova casa. I locali molto più ampi permisero di aumentare il numero delle orfanelle e delle suore.
Ciò che colpisce di più è l’aiuto modesto offerto da povera gente. Ma ci voleva ben altro per equilibrare e assicurare un bilancio, tra oneri quotidiani sicuri e offerte inadeguate alterne. Questa sproporzione evidente fa intravedere l’azione della Provvidenza, che, con interventi anche straordinari, non fece mancare mai il necessario.
L’11 settembre 1935 non c’era proprio nulla in cucina per il pranzo. Mentre una consorella, Suor Angela, chiedeva alla Superiora del denaro, entrò un sacerdote che domandò di dire Messa e passò subito in sacrestia. Suor Elena, che non aveva nulla, rispose a Suor Angela di ascoltare prima la Messa, in qualche modo il Signore avrebbe poi provveduto.
E la preghiera di Elena, delle Suore e delle orfanelle fu subito accolta: dopo l’elevazione, per la cappella si avvertì un forte profumo. Suor Elena che recitava l’ufficio della Madonna, nel suo libretto, alla seconda pagina, vide tra l’immaginetta della Madonna Addolorata e quella di S. Teresina, un biglietto da 50 lire. Era sicura che prima nel suo libretto non ci fosse proprio nulla, aveva recitato la sera precedente le medesime preghiere, nella medesima pagina.
Comunque, finita la S. Messa e donate le 50 lire per la spesa del giorno, Suor Elena con le sue bambine ritornò in Cappella pregando il Signore, a udita di tutte, «di far trovare altre cinquanta lire allo stesso posto nel libro, per dimostrare chiaramente che le prime cinquanta lire erano state non dimenticate da qualcuno, ma mandate realmente dalla Provvidenza!».
A sera, quando la comunità si adunò in cappella per le ultime preghiere, si avvertì lo stesso profumo del mattino. Le suore aprirono di nuovo il libretto e tra le due immaginette furono trovate altre cinquanta lire, con scritto nel rotondo bianco a lapis verde «50+50=100» e con alcune lettere dell’alfabeto greco. Al mattino seguente, Elena raccontò l’episodio al confessore, Can. Mazzuca, che volle vedere il biglietto delle cinquanta lire; ma la scritta nel tondo bianco era completamente scomparsa.
Nel 1934, vigilia di S. Giuseppe, si doveva pagare l’importo per un quintale di olio. Suor Elena adunò le sue orfanelle intorno all’altare, pregando il grande santo, capo della S. Famiglia. Verso sera si presentò all’Istituto un benefattore con un’offerta, corrispondente con esattezza all’importo dovuto per il quintale di olio.
Un giorno (già nell’attuale Casa Generalizia, 1937) Elena si accorse che mancava il pane, e mentalmente ne rivolse preghiera al Signore. In quel momento, una guardia municipale bussò per consegnare all’Istituto 36 kg. di pane, sequestrato in quella mattina.
A gennaio del 1948, con Decreto della Segreteria della S. Congregazione dei Religiosi, l’Istituto delle Suore Minime della Passione di N.S.G.C. venne elevato a Congregazione di diritto Pontificio. L’istituto ottenne quindi il riconoscimento giuridico, con Decreto Presidenziale dell’8-7-1949.
Le Case aperte da Suor Elena furono 18. Per diversi anni le Suore ebbero una Casa a Pentone (Catanzaro), aperta il 10 febbraio 1952, con asilo infantile e laboratorio di taglio, cucito e ricamo. Per qualche tempo furono a Pietrapaola che lasciarono il 31 agosto del 1953.
Dovunque, alle attività specifiche della Congregazione (educazione delle bambine), le Suore unirono sempre per la Casa Generalizia l’assistenza nelle parrocchie, con catechismo, azione cattolica, Messa del fanciullo.
La fama di santità della «monaca santa» era tale che il Prefetto Guido Palmardita parlò di Suor Elena a Benito Mussolini, che se ne interessò vivamente e mandò anche un sensibile aiuto alla Casa di Cosenza. E’ questo un precedente che spiega la perplessità creata nel Duce dalla missiva che Suor Elena gli fece pervenire alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Tale lettera fu pubblicata il 19 marzo 1956 dal «Giornale d’Italia».
«Cosenza, 23 Aprile 1940.
Al Capo del Governo Benito Mussolini Duce, vengo a Voi in nome di Dio per dirvi ciò che il Signore mi ha rivelato e che vuole da voi. Io non volevo scrivere, ma ieri, 22, il Signore mi è apparso di nuovo imponendomi di farvi sapere quanto segue:
“Il mondo è in rovina per i molti peccati e particolarmente per i peccati d’impurità che sono arrivati al colmo dinanzi alla Giustizia del mio Padre Celeste. Perciò tu dovrai soffrire ed essere vittima espiatrice per il mondo e particolarmente per l’Italia, dove è la sede del mio Vicario. Il mio Regno è regno di pace, il mondo invece è tutto in guerra.
I Governatori dei popoli sono agitati per acquistare nuovi territori. Poveri ciechi!… Non sanno che dove non c’è Dio non vi può essere alcuna vera conquista! Nel loro cuore non vi è che malvagità e non fanno che oltraggiarmi, deridermi, disprezzarmi! Sono demoni di discordia, sovvertitori dei popoli e cercano di travolgere nel terribile flagello anche l’Italia, dove sta Dio in mezzo a tante anime e la sede del mio Vicario, Pastor Angelicus.
La Francia, tanto cara al mio cuore, per i suoi molti peccati, presto cadrà in rovina e sarà travolta e devastata come Gerusalemme ingrata.
All’Italia, perché sede del mio Vicario, ho mandato Benito Mussolini, per salvarla dall’abisso verso il quale si era avviata, altrimenti sarebbe arrivata in condizioni peggiori della Russia. In tanti pericoli l’ho sempre salvato; adesso deve mantenere l’Italia fuori della guerra, perché l’Italia è civile ed è la sede del mio Vicario in terra.
Se farà questo avrà favori straordinari e farò inchinare ogni altra Nazione al suo cospetto. Egli invece ha deciso di dichiarare la guerra, ma sappia che se non la impedirà, sarà punito dalla mia Giustizia!”.
Tutto questo mi ha detto il Signore. Non crediate, o Duce, che io mi occupi di politica. Io sono una povera Suora dedicata all’educazione di Piccole abbandonate e prego tanto per la vostra salvezza e per la salvezza della nostra Patria.
Con sincera stima dev.ma Suor Elena Aiello».
La lettera fu consegnata alla sorella del Duce, Donna Edvige Mancini Mussolini, il 6 maggio 1940; ed ella la consegnò a Mussolini qualche giorno dopo.
Il 15 maggio 1943, Madre Elena mandò la seguente lettera a Donna Edvige:
«Gent.ma Donna Edvige, questo mio lungo silenzio vi avrà fatto forse pensare che io mi sia dimenticata di voi, mentre invece io mi ricordo tutti i giorni, nelle mie povere preghiere, seguendo sempre le dolorose vicende della nostra bella Italia.
Noi ci troviamo fuori Cosenza, a causa dei bombardamenti. La barbarie nemica ha sfogato il suo odio, sganciando bombe sulla città di Cosenza, causando devastazione, dolore e morte fra la popolazione civile.
Io mi trovavo a letto con le sofferenze: tre bombe sono cadute vicino al nostro Istituto, ma il Signore ci ha salvato nella sua infinita bontà e misericordia. Per tenere lontane le bambine dal pericolo di nuove incursioni, ci siamo rifugiate a Montalto Uffugo, mio paese natio, dove ci troviamo certamente a disagio, ma tutto offriamo al Signore per la salvezza dell’Italia.
La ragione di questo mio scritto è per rivolgermi nuovamente a voi, come nel mese di maggio del 1940, quando venni a Roma presentata dalla Baronessa Ruggi, per consegnarvi in inscritto le rivelazioni avute dal Signore riguardo al Duce. Ricordate quando il 6 maggio del 1940 dicevamo che il Duce aveva deciso di fare la guerra, mentre il Signore gli faceva sapere nella mia lettera che doveva salvare l’Italia dalla guerra altrimenti sarebbe stato punito dalla Sua divina Giustizia? “In tanti pericoli – diceva Gesù – l’ho sempre salvato; anche lui, adesso, deve salvare l’Italia dal flagello della guerra, perché vi è la sede del mio Vicario. Se farà questo gli darò favori straordinari e farò inchinare ogni altra Nazione al suo cospetto; invece lui ha deciso di fare la guerra, ma sappia che se non la impedisce, sarà punito dalla mia Giustizia”.
Ah!… se il Duce avesse dato ascolto alle parole di Gesù, l’Italia non si sarebbe trovata ora in così triste condizione!… Io penso che il cuore del Duce sarà molto rattristato nel vedere l’Italia, da un giardino fiorito, trasformato in un campo deserto, seminato di dolore e di morte. Ma perché continuare questa guerra terribilmente crudele, se Gesù ha detto che per nessuno vi sarà vera vittoria? Perciò, Cara Donna Edvige, dite al Duce, a nome mio, che questo è l’ultimo avviso che il Signore gli manda. Potrà ancora salvarsi mettendo tutto nelle mani del Santo Padre. Se non farà questo – diceva il Signore – presto scenderà su di lui la Giustizia Divina. Anche gli altri Governatori che non ascolteranno gli avvisi e le direttive del mio Vicario saranno raggiunti e puniti dalla mia Giustizia. Vi ricordate il 7 luglio dell’anno scorso quando mi dicevate che cosa ne sarebbe stato del Duce ed io vi risposi che se non si fosse mantenuto unito al Papa sarebbe finito peggio di Napoleone? Ora vi ripeto le stesse parole: Se il Duce non salverà l’Italia rimettendosi a quanto dirà e farà il Santo Padre, presto cadrà; anche Bruno dal cielo chiede al padre la salvezza dell’Italia e di lui stesso.
Il Signore dice spesso che l’Italia sarà salva per il Papa, vittima espiatrice di questo flagello, perciò non vi sarà altra via per la vera pace e per la salvezza dei popoli, fuori di quella che traccerà il Santo Padre.
Cara Donna Edvige, riflettete bene come tutto ciò che ha detto il Signore si sia perfettamente avverato.
Chi è che ha causato tanta rovina all’Italia? Non è stato forse il Duce per non avere ascoltato le parole di nostro Signore Gesù Cristo?
Ora potrà ancora rimediare facendo quanto vuole il Signore.
Io non mancherò di pregare».
Erano sempre numerose le persone che venivano anche da lontano per conoscere Madre Elena, per trovare uno spiraglio di luce alle loro angosce, un sollievo al loro dolore, una parola di fede allo smarrimento apparentemente senza via di uscita.
Lei sapeva ascoltare silenziosa la manifestazione dell’animo in pena, come conosceva il momento per parlare. Non tentava di cancellare il dolore con l’oblio, bensì d’ingrandirlo e nobilitarlo con la fede e con la speranza. Più spesso, si ricorreva a Suor Elena quando la sventura era soltanto una minaccia. Allora lei pregava e prometteva preghiere dalle sue bambine, disponendo l’animo in angoscia alla speranza o alla rassegnazione.
Ecco perché i benefattori si ritenevano sempre debitori verso «’a monaca santa»: ricevevano molto più di quanto ben volentieri essi potevano fare per lei e per l’Istituto.
Quante famiglie guardavano a Suor Elena, alle sue preghiere, alle sue sofferenze, come a un loro parafulmine, a una loro sicurezza, tanta era la fiducia che in lei riponevano.
Non di rado la Madre parlava di visite, di colloqui avuti nella notte, con defunti che particolari rapporti avevano avuto in vita con lei e con l’Istituto. Così dopo venti giorni dalla morte, vide nella sua stanza, seduta nella poltrona ai piedi del letto, la madre di un sacerdote di sua conoscenza (don Franco), con la quale ebbe un colloquio di circa venti minuti.
Una mattina, presto, tutta la Casa Madre fu svegliata da un grande rumore, come di un grande colpo che aveva aperto la porta della stanza di Suor Elena. Accorsero tutti, e lei con la consueta calma, raccontò la visita fatta dal defunto P. Vincenzo Donnarumma (ex direttore spirituale della Congregazione), che era venuto a ringraziarla per le intense preghiere fatte rivolgere a Dio per la sua anima da tutta la comunità.
Il pensiero della patria celeste era continuo in Suor Elena che spesso parlava della sua morte. Nel 1961 alle consuete sofferenze fisiche si aggiunse una forte febbre continua, che i medici non riuscirono a spiegare e ad eliminare.
Il 12 giugno 1961 Madre Elena fu portata nell’ospedale San Giovanni in Roma. La notte tra il 12 e il 13 giugno, le infermiere avvertirono un forte profumo nella stanza dove lei era ricoverata. Allora le venne chiesto: “Madre domani è la festa di Sant’Antonio che le farà certamente la grazia della guarigione”. Ella con grande serenità rispose: “Domani, né Sant’Antonio, né Santa Rita, né la Madonna faranno il miracolo”.
Domenica, 18 giugno, verso le due circa, il Parroco assistito da don Franco amministrò a Suor Elena l’Unzione degli Infermi, e insieme recitarono le preghiere per i moribondi. Alle 5,30 don Franco celebrò la S. Messa nella Cappella che è quasi di fronte alla stanza della Madre. Finita la S. Messa, Suor Elena cessò di soffrire. Erano circa le 6,19 di lunedì 19 giugno 1961.
La morte era giunta per tutti inaspettata. La salma fu amorevolmente trasferita in Cappella, tutta adorna di fiori bianchi. Il 21 giugno la salma arrivò a Cosenza. La notizia intanto si era diffusa e la folla accorreva ad ossequiare e a pregare.
P. Bonaventura da Pavullo, per diverso tempo Assistente Pontificio dell’Istituto, avendo avuto modo di conoscere bene Suor Elena, parlava di lei come di una donna di poca istruzione che aveva però una intelligenza aperta, un intuito pratico vivissimo, un gran buon senso e una forte volontà. Si esprimeva ordinariamente in quel suo dialetto calabrese, di Montalto Uffugo, ove era nata.
Aveva una somma rettitudine con cui si regolava e reggeva in tutto il suo operare, reprimendo quando occorresse il suo fiero carattere e la sua marcata personalità.
Era assolutamente schietta, semplice e spontanea, sia nel tratto che nelle parole, con tutti, anche con le alte Autorità civili e religiose con cui aveva spesso a che fare, senza, con questo venire mai meno al doveroso rispetto. E queste anziché dolersene, o meravigliarsene, ne godevano e restavano edificate.
Aveva uno spirito di Fede vivissimo. Parlava di Gesù e della Madonna come di Persone di famiglia. Nutriva profonda devozione per la SS. Eucaristia, per la Passione di Gesù e per la Vergine SS. Addolorata e Mediatrice degli uomini. La corona del S. Rosario l’aveva costantemente avvolta al polso a portata di mano, e la sgranava in tutti i momenti liberi. Delicatissima di coscienza, era però altrettanto aliena dagli scrupoli e dalla pietà meccanica o formalistica. Amava trattare con il Signore – come S. Teresina, sua Patrona – con grande confidenza, pieno abbandono e naturalezza infantile. Sentiva la sua piccolezza e nullità, ma non per questo era pusillanime; perché la sua era un’umiltà autentica. E questo spiega la facilità con cui parlava dei suoi fenomeni mistici, però coi Sacerdoti e persone riservate e di confidenza, di preferenza; affinché ne venisse lodato il Signore. E lo faceva con molta semplicità e naturalezza.
Non poteva sopportare il raggiro e la doppiezza e li smascherava e condannava apertamente e sdegnosamente. Si ribellava contro l’ingiustizia e la denunciava, da qualsiasi parte venisse, soprattutto se perpetrata ai danni dei poveri, dei deboli e degli indifesi. Più volte sacrificò la prudenza (umana) e le civili convenienze, pur di urlare in faccia agli sfruttatori tutto il suo sdegno e la minaccia dei severi castighi di Dio. Per questa sua franca e coraggiosa linearità, incontrò incomprensioni, umiliazioni e anche danno materiale.
Solo il peccato le incuteva paura e orrore, e gli mosse guerra spietata, ovunque lo scorgesse. Per i peccatori invece aveva una compassione materna; pur di salvarli non risparmiava preghiere, lacrime di sangue e martirio non solo mistico.
Fonte: profezie3m.altervista.org/ptm_aiello.htm
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